Kishimojin e la speranza


Dalle tenebre alla luce

La cultura giapponese è costellata di proverbi, o kotowaza (諺), che racchiudono profonde verità sulla natura umana e la società. Tra questi,

渡る世間に鬼はない

Wataru seken ni oni wa nai

risplende come un faro di speranza.

Tradotto letteralmente come:

Non ci sono demoni nel mondo che attraversiamo

Questo proverbio offre una prospettiva consolante: nonostante le difficoltà e le persone che possono sembrare “demoniache” (oni), esiste sempre la possibilità di trovare aiuto, compassione e bontà. Questa idea trova una potente incarnazione nella storia di Kishimojin (鬼子母神), una figura mitologica che da demone spietato si trasforma in una divinità protettrice.

Ma cosa significa veramente “oni“? Nel contesto di questo proverbio, il termine “oni” non si riferisce solo a mostri orribili con corna e zanne. Rappresenta piuttosto le forze negative che incontriamo nella vita: persone crudeli, avversità, difficoltà, sofferenze e tutti quegli aspetti che ci fanno sentire minacciati o sopraffatti. Comprendere questa sfumatura è fondamentale per apprezzare appieno il significato del proverbio e il ruolo di Kishimojin.

La storia di Kishimojin inizia in modo oscuro, con radici che affondano nella mitologia indiana. Originariamente conosciuta come Hariti, era la figlia di uno yasha (夜叉, una divinità guardiana spesso raffigurata come un guerriero demoniaco), proveniente da Rajgir. Dopo essersi sposata, diede alla luce molti figli, diventando madre di una numerosa progenie. Tuttavia, nonostante la sua maternità, la sua natura era profondamente corrotta. Invece di proteggere i bambini, si abbandonava a un orribile pratica: rapiva e divorava i figli degli altri, terrorizzando le madri e seminando dolore e disperazione. Questa immagine di Kishimojin, all’inizio della sua storia, incarna perfettamente l’idea di “oni” nel proverbio: una forza distruttiva e apparentemente inarrestabile, ancora più tragica perché proveniente da una figura materna.

Tuttavia, la storia di Kishimojin non finisce qui. Un giorno, il Buddha Shakyamuni, mosso da compassione, decise di intervenire per porre fine alle sue azioni malvagie. Nascose il figlio più piccolo di Kishimojin, infliggendole un dolore insopportabile. Provando per la prima volta l’angoscia della perdita di un figlio, Kishimojin comprese finalmente la sofferenza che aveva causato a innumerevoli madri. Questo momento di profonda empatia, paradossalmente scaturito dalla perdita di uno dei suoi molti figli, segnò una svolta cruciale nella sua esistenza.

Di fronte al suo dolore straziante, Shakyamuni Buddha la ammonì con parole che risuonarono profondamente nel suo cuore:

“Anche la perdita di un solo figlio su mille è così. Quanto maggiore allora è il dolore dei genitori il cui unico figlio viene divorato?”

Toccata nel profondo da queste parole e dal dolore che aveva provato in prima persona, Kishimojin si pentì sinceramente e promise di cambiare. Si convertì al buddismo e giurò di proteggere i bambini e le partorienti, diventando una divinità benevola e compassionevole, venerata ancora oggi.

È qui che il collegamento con il proverbio “Wataru seken ni oni wa nai” diventa chiaro e potente. La trasformazione di Kishimojin da demone divoratrice di bambini a protettrice amorevole incarna perfettamente il messaggio del proverbio: anche il più “demoniaco” degli esseri può trovare la redenzione e diventare fonte di aiuto e compassione. La sua storia dimostra che la speranza e la bontà possono emergere anche dalle situazioni più oscure e che il potenziale per il cambiamento risiede in ognuno di noi.

Il simbolismo di Kishimojin è ricco di significato. La sua metamorfosi rappresenta la possibilità di cambiamento e redenzione per tutti gli esseri viventi. Il suo ruolo di protettrice dei bambini e delle partorienti simboleggia la compassione, la cura e l’aiuto che il proverbio promette. La sua figura ci ricorda che anche quando ci troviamo di fronte a difficoltà o persone che ci sembrano “demoniache”, non dobbiamo perdere la speranza, perché la possibilità di cambiamento e di benevolenza esiste sempre.

Fonte: Shinjoji

Questa idea di trasformazione e di potenziale di bontà è profondamente radicata nel buddismo, che enfatizza la compassione (jihi, 慈悲) e la possibilità di illuminazione per tutti gli esseri. Inoltre, il concetto di mandala, in particolare quelli associati al buddismo di Nichiren, può essere visto come una rappresentazione visiva di questo proverbio. Il Gohonzon (御本尊), l’oggetto centrale di venerazione nel buddismo Nichiren, è un mandala su cui è incisa la frase

Namu Myōhō Renge Kyō” (南無妙法蓮華経)

che rappresenta la Legge del Sutra del Loto. Si ritiene che questo mandala comprenda tutti i Buddha, i Bodhisattva e altri esseri, compresi quelli che potrebbero essere considerati “oni” nel loro stato non illuminato. Recitando il Gohonzon, i praticanti credono di poter attingere alla natura di Buddha inerente a se stessi e a tutti gli esseri, trasformando la negatività in azione positiva e promuovendo il mutuo sostegno. Questo si allinea con il messaggio del proverbio secondo cui, anche in un mondo che può sembrare pieno di “demoni”, il potenziale per la compassione e l’aiuto esiste dentro ognuno.

In conclusione, la storia di Kishimojin non è solo un racconto mitologico, ma una potente narrazione del proverbio “wataru seken ni oni wa nai“. Ci insegna che la speranza e la compassione possono fiorire anche dove sembrano esserci solo oscurità e sofferenza. Ci ricorda che il cambiamento è possibile e che il potenziale per la bontà risiede in ognuno di noi, offrendoci un messaggio di conforto e incoraggiamento nelle sfide della vita.


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